1.4.08

Di ritorno da Galassia Gutemberg

Stanco ma felice, sono appena tornato da Galassia Gutemberg.
Una splendida esperienza. Il mio romanzo PER LE MUTE VIE ha trovato attenti ascoltatori quando, richiesto, ho dato voce a brevi intense pagine della mia storia.
Pochi conoscevano e conoscono la nostra realtà, e tanto meno me e la mia casa editrice. Ho fatto del mio meglio per far conoscere l'uno e l'altra, e, indirettamente, la Sardegna. Celebre soprattutto per i romanzi di ieri e per quelli più blasonati di oggi.
Mi hanno chiesto, alcuni acuti lettori, perchè scrivere della nostra isola se tutto ormai è stato scritto? Non tutto ho detto, né ora né mai. La nostra isola è un continente immenso, e susciterà mille altre scintille, "...finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane".
Ho conosciuto lettori, giornalisti, direttori di giornali, a cui ho parlato dei miei personaggi, del mio romanzo, della mia scrittura. E della Sardegna. A modo mio, con onestà intellettuale e passione narrativa.
Ne racconterò in un post più esaustivo, domani. Ciao a tutti, Eliano

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Eliano,

così come ti avevo promesso, eccomi qui per parlare con te del tuo libro, per raccontarti le mie impressioni che, ben lungi dal costituire un ‘giudizio’, vogliono solo essere un modo per farti conoscere ciò che in me è riuscita a suscitare la lettura della tua opera.

La storia che racconti mi ha dato spunto per molte riflessioni. E’ stato come affacciarmi su uno spaccato di mondo del quale, sì, avevo sentito parlare, sul quale avevo pure letto qualche cosa, ma nel quale mi sono trovata improvvisamente immersa, nella consapevolezza di sbirciare tra le pieghe di una realtà autentica, pur raccontata con le licenze che un narratore può permettersi quando utilizza la forma del romanzo.

Sei riuscito a rendere ancora più dura la vicenda, attraverso l’ambientazione di essa in paesaggi dove si percepiscono i rigori dell’inverno anche attraverso la primavera, il cui splendore tarda ad arrivare, così come nelle lunghe giornate di pioggia o negli anticipi che la brutta stagione offre di una temperatura che continuamente pare raggelarti e insinuarsi nelle tue ossa.

D’altra parte, quel rigore si avverte fin dal primo rigo del racconto, in quella nebbia che ‘arranca in salita’, mostrandoti subito quanto sarà aspro il percorso che la tua anima dovrà percorrere prima di poter conoscere la fine della storia.

E il freddo che la pervade non è forse quello stesso freddo che Jean è riuscito ad evitare, schivando l’inverno del ’53, per poi ritrovarsi avvolto dal gelo di quello del ’63?

E’ vero che ci sono anche situazioni in cui descrivi la calura estiva e la buona stagione, ma quelle parti del racconto mi hanno colpito molto meno e mi hanno dato la sensazione che siano quasi irrilevanti nel contesto dei fatti narrati, anche se credo meriti particolare considerazione un punto (pag. 153) in cui Emilio chiama l’estate ‘la mia stagione’.

L’espressione usata mi ha dato piuttosto l’impressione di un lamento, quasi a voler esprimere proprio il contrasto con lo stato d’animo dello stesso Emilio, mentre vaga ‘nelle campagne senza meta, senza entusiasmo’. Insomma, anche quando c’è, la buona stagione sembra essere una presenza inopportuna, inadeguata al dolore e alla crudezza che trapelano dalla vicenda narrata.

Forse queste mie impressioni sono state pure accentuate dal fatto che ho sempre associato la terra sarda al sole e ad una natura aspra, ma pur sempre prorompente ed esaltante, anche quando il paesaggio è fatto solo di roccia, di una roccia capace, però, di darti emozioni e suggestioni uniche, come se fosse palpitante e viva.

Sarà per questo, dunque, ma la lettura del tuo libro per la prima volta mi ha fatto percepire intimamente la realtà di una terra che sa pure essere fredda e dura, anche se non diventa mai ostile ai suoi figli. Anzi –e questo è stato un altro aspetto che mi ha colpito e, direi quasi, sconcertato- nel tuo libro si legge qualcosa di ulteriore, che non si riduce alla mancanza di ostilità, ma che sembra rappresentare la terra sarda, come una Madre Terra, complice e protettiva verso i suoi figli, quegli stessi figli che, però, nello stesso tempo, tratta con inaudita severità e durezza, proprio come una madre che non voglia cedere all’indulgenza, anche quando deve pagare un prezzo molto alto per questo.

Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una genitrice vigile ed inflessibile, anche verso i suoi figli migliori, cui non è disposta a risparmiare, e neppure ad alleggerire, la sofferenza, quando questa sia comunque necessaria a far apprendere loro lezioni di vita.

E’ una terra che protegge, ma che non vuole essere abbandonata e così chi si allontana… muore, in senso letterale, come succede ad Antoni o come è accaduto ad alcuni degli amici minatori di Jean, o in senso figurato, come è accaduto allo stesso Jean o ad altri suoi amici che lasciarono la loro terra insieme a lui e che sopravvissero alla tragedia della miniera.

Questo aspetto, come ti ho detto, mi ha un po’ turbata e mi chiedo se sia solo una mia impressione o se ci sia davvero un senso di attaccamento da parte dei Sardi alla propria terra così forte e radicato, da far divenire legittimo persino il rimprovero, e quasi un senso di rancore, verso coloro che in qualche modo decidano di allontanarsi.

Ma torniamo alla storia e ai protagonisti di essa.

Antoni e Jean sono uomini nei quali il radicato senso dell’onore si basa su valori autentici come l’amicizia, la lealtà e la forza, intesa come qualità dell’animo umano, capace di fornire l’energia necessaria a tenere fede ai propri propositi e ad affrontare i sacrifici necessari per mantenerli.

I due personaggi si inseriscono in un ambiente dove bisogna continuamente guardarsi dalle malefatte di individui senza scrupoli, dove serpeggia l’intrigo e maturano propositi di regolamento di conti, attraverso ritorsioni orrende e crudeli. Anche Antoni e Jean sono preda di desideri di vendetta, che riescono a reprimere con fatica e più per un senso di rispetto verso l’amico che li consiglia, che per un convincimento interiore. E la sete di vendetta cova continuamente, appare come un filo conduttore di tutta la storia, nel corso della quale viene repressa con incredibili tormenti. Alla fine Jean, che ormai ha perso anche il suo amico più caro, si salva da essa e non ne viene travolto, quando meno ce lo aspettiamo e, anzi in contrasto con quello che sembra ormai l’inevitabile finale.

Lo salva il caso o, forse, un destino provvido che, complice la misteriosa Terra Madre Sarda, fa sì che i due malandrini assassini, contro i quali è diretta la sua ira, si ammazzino tra loro, ingannati forse da una roccia che non ha saputo nasconderli o forse da un’ombra che ha falsato la loro identità.

Magari hanno a lungo atteso, in paziente agguato, per poter infierire per l’ultima volta sul povero Jean, ma, alla fine,quando probabilmente i loro nervi erano tesi e stanchi, sono stati traditi da qualcosa, provocato da un insignificante rumore o, magari, dalla loro stessa fantasia, che ha fatto sì che scambiassero il proprio compare di malaffare per il nemico da colpire.

Tutto questo tu nel tuo libro non lo dici. Metti il lettore di fronte al fatto compiuto, davanti a tre corpi, uno dei quali, quello di Jean, stroncato dal male che da tempo gli covava dentro, gli altri, squarciati l’uno dal colpo del fucile dell’altro.

E’ il lettore che, però, non si accontenta di prendere atto dell’esistenza di quei tre corpi senza vita e allora… immagina in che modo ciò sia potuto accadere.

Il finale rappresenta, insomma, uno stimolante invito alla riflessione che lascia aperti suggestivi scenari, che, almeno per come la vedo io, fanno intravedere quella mano provvida di una terra che non abbandona i suoi figli migliori e che ha voluto che Jean salvasse la sua anima, proprio nel momento in cui stava per perdersi. In questo modo anche la vendetta si è trasformata in un atto estremo di giustizia e pure la morte dello stesso Jean, anziché una disgrazia, appare come la liberazione di un uomo che non ha più alcun interesse per la vita.

E, in tutto questo, la natura complice mi fa ancora pensare alla suggestione che ogni volta ho provato quando sono stata nei luoghi che descrivi, percependo l’energia vitale che da ogni arbusto e persino dalle rocce sembra palpitare di una vita che rende quella natura partecipe delle vicende umane, fino a rendersi essa stessa giustiziera.

Come vedi, alla fine, riesco a trovare un epilogo positivo al tuo romanzo, malgrado la tua espressa contraria affermazione con cui lapidariamente affermi che “solo all’apparenza c’è chi vince e chi perde, all’apparenza perché perdono tutti, chi prima chi poi…”.

Come puoi comprendere non condivido il tuo pessimismo che, senza mezzi termini, hai espresso nelle parole che ho citato. Vedi, io faccio parte di quel numero di persone (forse solo illusi, ma non credo) che sono convinte che, alla fine, sia la luce a vincere, così come avviene anche nel tuo romanzo.

Un altro aspetto del libro che mi ha colpito, trasmettendomi per la verità una certa inquietudine, è costituito dall’assenza in tutta la narrazione di un rapporto vero tra i protagonisti del romanzo, compreso il giovanissimo Emilio, e le donne.

Probabilmente ciò è da ricondurre anche al fatto che la vicenda di cui parli si colloca in un periodo (fine anni ’60) e in un ambiente che in parte giustificano il divario che sembra spaccare in due l’umanità, in ragione del sesso di appartenenza. Tuttavia, nella considerazione dei personaggi della storia le donne sembrano esistere quasi in funzione degli uomini. Per lo più sono solo l’oggetto del loro desiderio, che non è mai amore. Neanche quello verso Mannica mi è sembrato tale.

Si parte da un desiderio che scaturisce dalle prime pulsioni e curiosità di natura sessuale e, via via, si procede nell’orgoglio di affermazione della propria virilità, fino a che, con la maturità, le esigenze giovanili si trasformano nel desiderio di avere accanto una donna che non sia più soltanto un mezzo di appagamento del proprio sesso, ma anche una creatura affidabile con cui metter su famiglia ed avere figli.

Sempre e solo l’appagamento del maschio sembra essere il filo conduttore che lega i personaggi del libro alle donne, sulle quali sembra significativo un commento, quando, alle perplessità di Emilio costernato di fronte al comportamento perfido e vendicativo di Lillina, viene sbrigativamente risposto “perché le donne sono donne”. E’ vero che Emilio non sembra troppo convinto dalla risposta, ma non viene da parte sua neppure tentato di controbattere qualche cosa. Sarebbe stato facile ad esempio osservare che tutti gli altri traditori erano uomini.

Tutto questo mi ha fatto chiedere perché nessuno dei protagonisti abbia mai neppure tentato di esplorare il mondo femminile, perché nessuno sia mai andato oltre il gesto di sfilare una sottana. Forse era proprio questo spaccato di mondo che volevi mostrare, un mondo dove le donne si limitano a vivere e soffrire per i loro uomini, che riescono pure a tradire, ma sempre per un altro uomo. In favore di questa ipotesi sembra deporre il fatto che, nel libro, ogni volta che si fa riferimento alle donne, se ne parla quasi senza giudizio e senza sofferenza, come se ci si volesse limitare a fornire una sorta di fotografia di una situazione oggettiva, espressione di un modello di società che accetta tale modo di vivere e di sentire. E’ possibile che sia così, ma non ti nascondo che ho pensato che forse anche il narratore dovrebbe conoscere meglio il mondo femminile.

C’è un ulteriore aspetto che mi ha colpito del mondo di cui parli e, questa volta, riguarda gli animali. Per me che sono decisamente un’animalista è stato un po’ duro leggere le pagine che riguardano la caccia alle povere lepri o che raccontano di capre e maiali scannati. Credo, però, che sia del tutto comprensibile il fatto che in una società ‘povera’, come sicuramente è quella fondata sulla pastorizia gestita nel modo descritto nel libro, non sia possibile permettersi tanti sentimentalismi verso gli animali, che costituiscono il mezzo di sopravvivenza per l’uomo. Ciò malgrado, Isteddau costituisce un’eccezione che colpisce, in quanto il cavallo è diventato un compagno prezioso per il suo padrone, col quale sembra condividere sentimenti che vengono reciprocamente palesati. Ed è proprio Isteddau a dare il senso di quel profondo legame che l’animale è riuscito a percepire e che lo porta a compiere egli stesso una vendetta, che, anche in questo caso, assume il sapore di un atto di giustizia che si conclude con la morte di chi ha tentato di rubare l’animale a Jean.

Questo mettere a fuoco il senso di dedizione dell’animale che riesce a darne prova, ricambiando l’affetto ricevuto dal suo padrone, mi è sembrato una cosa apprezzabile proprio per le considerazioni fatte sopra circa la naturalezza con cui sembra ovvio trattare il tema degli animali in un mondo dedito alla pastorizia.

Come vedi, caro Eliano, il tuo romanzo mi ha dato tanti spunti su cui riflettere e credo che sia davvero valsa la pena leggerlo. Per me ha sicuramente costituito un’occasione di arricchimento e penso che sia giusto che tu tenti di divulgarlo. Potrei ancora dire molto su ciò che hai scritto e molte cose avrei da chiederti, ma adesso voglio solo aggiungere qualche breve impressione sul modo in cui hai scritto il libro.

Ho già avuto modo di anticiparti che mi piace lo stile e la semplicità del linguaggio, capace di raggiungere il lettore in modo chiaro e diretto. Quello che mi è mancato durante la lettura è qualche momento di pausa nel corso della narrazione. Credo che una divisione in capitoli favorirebbe tali momenti di pausa, a mio avviso necessari per invitare il lettore a chiudere il libro e riflettere. A questo fine non mi sembra sufficiente il ‘salto’ di un rigo ogni tanto.

Naturalmente questa è solo la mia personale impressione, determinata dal fatto che, trovandomi di fronte ad una narrazione senza ‘stacchi’, ho avuto qualche volta la sensazione di leggere in stato di apnea, senza avere la possibilità di usufruire di naturali momenti di pausa da utilizzare per meditare sul già letto e per scaricare l’angoscia che una lettura tanto dolorosa e coinvolgente è capace di farti accumulare.

Ma forse tu è proprio per questo che hai omesso la suddivisione in capitoli, proprio per evitare le pause e per fare ingurgitare tutto d’un fiato la ‘dolente’ storia, come tu stesso l’hai definita.

Ti abbraccio con affetto e senza la presunzione di aver capito davvero il tuo messaggio.

Anna Maria Ragaini



P.S.: Resto ancora convinta che Emilio, il narratore, abbia avuto necessità, attraverso questo romanzo, di ripercorrere un tassello della sua vita per rielaborare qualcosa di irrisolto che gli era rimasto dentro e che improvvisamente qualcuno, o qualcosa, gli ha sbattuto davanti agli occhi e nel cuore, facendogli rivivere emozioni antiche, apparentemente sopite, ma vive più che mai.